Introduzione
Una ragazza, due uomini, una notte di festa e alcol. E poi una sentenza che fa discutere l’Italia: assolti dall’accusa di stupro perché lei “era consenziente, anche se ubriaca”. È successo a Reggio Emilia, ma potrebbe accadere ovunque. E il messaggio che passa è pericoloso: se sei ubriaca, sei comunque in grado di dare consenso. Anche se non ricordi nulla. Anche se hai paura. Anche se ti svegli dopo.
Il caso: il sesso in auto e la denuncia
La vicenda parte dal racconto di una giovane che, dopo aver trascorso una serata in discoteca, denuncia di essere stata violentata da due uomini, con i quali aveva avuto un rapporto sessuale in auto. Lei era confusa, spaventata, ubriaca. Non ricordava tutto, ma abbastanza da sapere che qualcosa non andava. I due imputati, invece, hanno sempre sostenuto che fosse stata consenziente.
Il caso è finito in aula. Ma nonostante le testimonianze, nonostante il racconto della vittima, i giudici hanno assolto gli imputati. Perché secondo la Corte, l’alcol non aveva annullato del tutto la sua capacità di intendere e volere.
Una sentenza che divide
Non è la prima volta che accade, ma ogni volta è uno schiaffo. Alla vittima. Alle donne. Alla lotta per il riconoscimento della violenza sessuale per ciò che è: una questione di consenso reale, lucido, libero. Se una ragazza è ubriaca, alterata, confusa, come può essere davvero consenziente?
Eppure, la sentenza ha stabilito che “il consenso c’era”, anche se espresso in condizioni di alterazione. Una scelta che fa tremare. Perché rischia di diventare un precedente pericoloso.
Ubriaca non vuol dire consenziente
C’è un concetto che dovrebbe essere chiaro, ovvio, scolpito nella legge e nella coscienza collettiva: una persona ubriaca non può dare un consenso valido. È lo stesso principio che vale per i contratti, per la guida, per ogni decisione giuridicamente rilevante. Eppure, quando si parla di corpi femminili, il principio vacilla.
Questa sentenza sembra dire il contrario: che l’ubriachezza non basta a far scattare il dubbio, che se una donna non grida, non lotta, allora è consenziente. Anche se il giorno dopo denuncia. Anche se si sente violata.
Il problema di fondo: la cultura giudiziaria
Il vero dramma non è solo nel fatto in sé, ma nella mentalità che continua a permeare troppi tribunali italiani. Dove si valuta la resistenza fisica, il passato della vittima, il suo abbigliamento, la sua lucidità. Come se la colpa fosse sempre un po’ sua. Come se le donne dovessero dimostrare di non volere, anziché gli uomini dover dimostrare che il consenso c’era davvero.
Questa cultura giudiziaria arretrata non tutela, non educa, non protegge. Al contrario: spaventa chi vorrebbe denunciare e incoraggia chi pensa di poterla fare franca.
Conclusione
La sentenza di Reggio Emilia non è solo una sconfitta per una ragazza. È un messaggio velenoso per tutte le donne: che il tuo no può non valere, che il tuo corpo non è davvero tuo, che se bevi e ti confondi, allora “te la sei cercata”.
Ma c’è chi non ci sta. Chi continua a parlare, a denunciare, a lottare. Perché il consenso non è una zona grigia. O c’è, o non c’è. E se non sei in grado di darlo, allora non è consenso. È violenza.